Chiesa – Monsignor Zuppi nuovo presidente della CEI
Monsignor Matteo Maria Zuppi è dal 24 maggio il nuovo presidente della Conferenza Episcopale Italiana.
Accompagnano questo suo cammino al servizio della Chiesa, con le parole della sua omelia del 16 naggio scorso, fetsa di Don Orione, pronunicata nella Chiesa di San Giuseppe Cottolengo a Bologna, parrocchia retta dai sacerdoti orionini.
Rinnovare oggi i prodigi della Chiesa dell’inizio: ecco la nostra preghiera allo Spirito Santo, che suscita santità. Ne abbiamo bisogno: ci sentiamo vecchi e tutto sembra vecchio, segnato dal limite. Lo Spirito Santo ha suscitato don Luigi Orione, ma è sempre presente, genera, crea, e suscita i carismi. Noi li mettiamo a servizio o ce li teniamo per noi, con il protagonismo personale che sciupa il dono? I carismi, cioè il dono che è ognuno di noi, si svelano quando li usiamo per costruire la Chiesa e per il bene di tutti. Se li teniamo nascosti per paura, se restano sotto le categorie del mondo che vogliono condizionare i cristiani e la Chiesa stessa, non servono a niente. Il carisma è amore per amare e mette in discussione l’individualismo che riduce il Vangelo a pasticceria spirituale, a benessere senza tanti sacrifici, senza radicalità, senza perdersi, ma conservando molto e trovando le spiegazioni per cui farlo.
La santità è il vero problema ed è così differente dai nostri calcoli, dalle interpretazioni che ci rendono prigionieri di noi stessi. Tutti possiamo essere facchini di Dio, mentre spesso pensiamo di essere dirigenti, amministratori che non si sprecano che finiamo per diventare umarel!
La santità di Paolo è un invito a ciascuno di noi. Tutti noi possiamo essere umili, che servono quindi a tutto, non a niente! Lo facciamo con fatica, perché pensiamo di valere tanto e crediamo che valere significhi imporsi, non servire, piegare gli altri a noi e non abbassarci per fare quello che serve, riscuotere il giusto riconoscimento e non donare gratuitamente, farla pagare e non continuare a volere bene comunque, caso mai cercando di farlo meglio e in maniera più abile. Servire il Signore con umiltà, anche tra le lacrime e le prove, dice l’Apostolo. Il servizio non evita le avversità, anzi le affronta, ma sempre per amore. Ci sono molti lupi rapaci, le dottrine che confondono, che mettono alla prova l’unità, che dividono, che rendono sciapo il nostro amore, che portano ad ignorare il prossimo riempiendo di interessi per sé.
Bisogna soccorrere i deboli, perché sono deboli e perché ce lo chiede Colui che si è fatto debole: Gesù. Bisogna farlo lavorando. La Chiesa è anche lavoro, tanto lavoro. Siamo lavoratori, presi a giornata che ringraziano, invece di lamentarsi del denaro dato per misericordia dimenticando di essere stati presi tutti disoccupati. Consapevoli e memori di questo, facciamo tutto con carità e gratitudine di poterlo fare. Di tutto, infatti, è più grande la carità, cioè amore, quella per cui anche le cose che facciamo hanno senso e hanno valore enorme. Non basta fare qualcosa. Spesso crediamo il contrario e finiamo per sentirci in diritto. Invece è solo la carità con cui Gesù ci ha amato e che ci ha affidato chiedendoci di vivere il suo comandamento dell’amore, il sacramento dell’altro, cioè del prossimo. È quello che ci salva, perché tocchiamo il fratello più piccolo di Gesù e qualunque cosa facciamo è a Lui. Lo sappiamo, non possiamo dire che non eravamo informati, perché nel giudizio sono ignari, mentre adesso ne siamo edotti, cioè a salvarci dalle omissioni, quelle che ci sembrano neutrali mentre ci condannano.
Don Orione è proprio un “santo della carità”. Solo la carità salverà il mondo! È il santo della provvidenza, quella per cui non dobbiamo affannarci e quella per cui scopriamo i tanti doni che già abbiamo e che ci fanno vedere Gesù, amarlo, fare qualcosa per Lui. Cambia tutto, ovviamente, quando è così. «Opere di carità ci vogliono – affermava san Luigi Orione – perché sono la migliore apologia della fede cattolica» (Scritti 4, 280). Il pulpito, diceva. E sono le prediche che arrivano a tutti. E quanto è vero anche oggi, quando le persone cercano i testimoni, sono attratte dall’amore. E non è quello che ci ha promesso Gesù: da come ci ameremo e da come ameremo ci riconosceranno? Non dai giudizi, non da lezioni di teologia che non scaldano il cuore, non da interpretazioni intelligenti e nemmeno da sconti di falsa comprensione per l’altro, nemmeno dalla coerenza della vita, ma da come ameremo e da come ameremo come Gesù, fino alla fine.
Possiamo essere peccatori – e lo siamo – ma la carità, cioè l’amore, copre una moltitudine di peccati. Sembra che nei nostri tempi la provvidenza sia esaurita. Non ne parliamo più, anzi se ci affidiamo alla provvidenza possiamo sembrare ingenui, poco previdenti. Abbiamo tante sicurezze e ci sentiamo più fragili e ci fidiamo di meno, prendiamo meno rischi. In realtà è solo perché per amore ci affidiamo alla provvidenza! La provvidenza è la nostra sostenibilità. Certo lo sappiamo, e don Orione ce lo ricorda, che richiede tutto noi stessi, il lavoro e il dono radicale di sé stessi. Ma proprio per questo ci affidiamo alla provvidenza, cioè alla protezione di Dio che riveste i gigli del campo, e non alle nostre idee (vedi lo gnosticismo) oppure alle nostre mani (il pelagianesimo), per cui quello che conta sono le opere delle nostre mani.
Noi ci affidiamo poco alla provvidenza perché crediamo poco allo Spirito e in realtà ce ne mettiamo poco anche del nostro, preferiamo i programmi che pensiamo risolvano tutto e solo quando sono completi (e quando lo saranno? E che cosa significa aspettare e fare aspettare?). La provvidenza cerca subito le risposte perché servono, urgono! Sappiamo che il Signore non ci fa mancare la forza, la risposta. Affidiamoci al vento che rende nuove tutte le cose, anche ciò che è vecchio. Scegliamo di amare fino alla fine, come Gesù, che si affida alla volontà del Padre.
Noi facciamo quello che Lui ci dirà, anche se andiamo a prendere solo dell’acqua e ci può apparire che non serva a niente se manca il vino. Ecco la provvidenza: affidarsi all’amore di Dio per amore e diventarne strumenti. San Luigi Orione scrive: «Nostra prima Regola e vita sia di osservare, in umiltà grande e amore dolcissimo e affocato di Dio, il Santo Vangelo» (Lettere di Don Orione, Roma 1969, vol. II, 278). «La carità trascina, la carità muove, porta alla fede e alla speranza»(Verbali, 26.11.1930, p. 95). La carità non sarà mai filantropia. La possiamo ridurre, e qualche volta dobbiamo chiederci se non ci accontentiamo della giustizia degli scribi e dei farisei. A che serve fare cose anche grandi, dice l’Apostolo, ma senza carità? Senza confini! L’Italia e l’America Latina, sempre attento a chi soffre.
Affrontò le pandemie di allora, come i terremotati di Messina e della Marsica e poi le conseguenze della prima guerra mondiale. Povero tra i poveri, pieno di compassione, cioè faceva sua la sofferenza che incontrava. Anime da salvare. Anime e anime! «Ecco tutta la nostra vita; ecco il grido e il nostro programma; tutta la nostra anima, tutto il nostro cuore!». «Cristo viene portando sul suo cuore la Chiesa e nella sua mano le lacrime e il sangue dei poveri; la causa degli afflitti, degli oppressi, delle vedove, degli orfani, degli umili, dei reietti: dietro a Cristo si aprono nuovi cieli: è come l’aurora del trionfo di Dio!». Per questo, facendo parlare l’amore di Dio, sceglieva la carità, senza confini, avvicinando i politici o gli uomini di cultura, allo stesso modo dei poveri che faceva suoi, non ospiti, familiari, sempre in preghiera.
Era grande perché amava, non amava perché era grande! «Vi raccomando di stare e di vivere umili e piccoli ai piedi della Chiesa». Egli volle dimostrare che si può stare con la Chiesa e con i poveri. Non una mezza verità, ma la verità che è Cristo nella Chiesa e nella sua carità. Non una carità senza l’amore di Cristo! E sempre con l’amore alla Chiesa e al Papa, unito all’amore per i poveri. Non ne parlava come fosse un partito o un’estranea, ma la rispettava come sua madre, come Maria, madre di Dio. Vivere sempre con speranza, con coraggioso ottimismo e non pieni di dubbi che non costruiscono, di difficoltà per non fare, di vittimismi per cui non si è mai pronti o manca sempre qualcosa. Diceva a voi Giovanni Paolo II: «”I popoli sono stanchi – egli scriveva – sono disillusi; sentono che tutta è vana, tutta è vuota la vita senza Dio. Siamo all’alba di una grande rinascita cristiana? Cristo ha pietà delle turbe: Cristo vuol risorgere, vuol riprendere il suo posto. Cristo avanza: l’avvenire è di Cristo” (Lettere, II, 216)». E sempre con allegria perché «disdice ai Servi di Dio lo stare melanconici e tristi». «Noi dobbiamo irradiare la gioia, la letizia di Dio, la felicità di Dio: far sentire che servire e amare Dio è vita, è calore, è ardore, è vivere sempre allegramente e che solo i Servi di Dio sentono la pace gioiosa e il bene e la gioia santa della vita. Niente cappa di piombo, né su di noi né su chi sta con noi! Cantate! Suonate! Letiziatevi in Domino!, riempite la Casa di soave festosità. Servite Domino in laetitia!» (Scritti 21, 179). «Una volta io viaggiavo con un signore in Uruguay. Interrogato se sapevo lingue orientali, gli risposi in tortonese; egli credeva che gli rispondessi in aramaico!» (Parola 6, 273).
Tutto sia letizia, tutto sia gioia senza i fastidi di chi alla fine non vuole essere disturbato nella sua quiete. Non è forse la gioia del Vangelo? Non affannatevi di quello che mangeremo e berremo. Per amore dei deboli e dei poveri affidiamoci alla provvidenza e saremo provvidenza e troveremo la nostra provvidenza.