
#seguilastella -Con Don Orione, siamo una famiglia che abbraccia il mondo intero
Conoscere Don Orione è l’occasione per molti collaboratori di comprendere meglio il senso del proprio servizio, di sentirsi parte di un’opera più grande, che non si limita alla città dove lavorano ma abbraccia tutto il mondo. Il percorso carismatico #seguilastella ha questo scopo: avvicinare i collaboratori laici al carisma di Don Orione, con la delicatezza e la semplicità di chi ti presenta un amico speciale, che desidera tanto fari conoscere.
Ascoltiamo la testimonianza di uno dei partecipanti al secondo livello di questo percorso, che si è conclusio ieri a Montebello della Battaglia.
Si riparte dall’Abruzzo con una formazione di quattro partecipanti da Pescara e due da Avezzano. Alessandro è il nostro infaticabile autista; accanto a lui Mariarita veglia attenta, mentre al centro siedono Luisa e Diletta. Quest’ultima ha un talento particolare: scovare gli autogrill e valutare con cura quale orsacchiotto meriti di essere portato a casa. Perché ogni viaggio ha anche bisogno di un ricordo da stringere. Nel trio dei sedili posteriori, Utilia ha una farmacia ambulante nella borsa, pronta a ogni evenienza. E poi suor Teresa, che ci ricorda – con la dolce fermezza della fede – che ogni viaggio inizia con una preghiera. Io, speriamo che me la cavo, lasciandomi trasportare, letteralmente, sulle montagne russe di questo autobus, donato al Don Orione di Pescara dall’Associazione Annalisa Minetti.
Il viaggio precedente si era chiuso all’Eremo di Sant’Alberto di Butrio, in un silenzio che parlava di fede. Frate Ave Maria, il monaco cieco che vedeva più in profondità di chiunque altro, riposa lì. Lui, che non si orientava con gli occhi ma con il cuore e la luce della fede in Dio.
Spengo il 18 marzo come si spegne un interruttore. Lascio, mentre scrivo, che il caldo e provvidenziale Tachifludec di Utilia faccia il suo lavoro e piombo in un sonno stranamente senza sogni.
Il 19 è la festa di San Giuseppe, patrono dei padri. Tra un messaggio su WhatsApp per gli auguri a qualche papà che conosco e un piccolo spuntino dopo i primi due interventi della mattinata a Villa Lomellini, sono le 10:59. Un minuto prima di tornare nella sala convegni. E in quel minuto, al tavolo ormai quasi vuoto della pausa, c’è Don Giovanni che si affretta a rientrare. Don Giovanni, palermitano che vive a Roma e dice “annamo”. Quo vadis?
Una parola nuova era apparsa all’orizzonte, lanciata da lui nel primo intervento: sinodalità. Camminare insieme. Ma insieme verso dove?
Don Giovanni ci ha invitato a riflettere subito all’apertura di questo secondo livello di Segui la stella: il carisma orionino non è un’isola. Vive dentro la Chiesa, con la Chiesa. Non è per pochi, ma per tutto il popolo di Dio. E la carità? Non è un gesto solitario, ma un movimento di comunione, partecipazione, missione. Tre parole che diventano tre percorsi intrecciati. Non semplici concetti, ma processi vivi.
Sul mio illeggibile foglio degli appunti – che dopo due giorni cerco di decifrare nella stanza 121, accanto al grande dipinto di Don Orione con tre ragazzi – le parole si aggrovigliano. Azienda o impresa? Davide Gandini ci ha portato tra le righe del Codice Civile, ci ha aiutato a vedere come il carisma possa incarnarsi anche in forme giuridiche, ma senza perderne l’anima. E allora, Don Orione cos’è? Un’impresa del cuore? Una famiglia allargata? Forse una realtà circolare, non gerarchica, dove sinodalità è sostanza e non solo teoria. Dove il vertice si abbassa fino all’ultimo degli ospiti. Dove si cammina davvero insieme.
Il pomeriggio prosegue con Don Pierpaolo e Don Fernando. Il primo ci ricorda che il carisma non è statico, ma vivo e in continua incarnazione nel presente. Il secondo ci parla di integrità: non come rigidità, ma come allineamento profondo tra ciò che siamo e ciò che facciamo. Una leadership che nasce dalla coerenza.
Gli appunti, inizialmente caotici, si sciolgono lentamente. In mezzo al disordine, affiora una direzione, un senso. Non tutto è chiaro, ma qualcosa si accende come un disegno che inizia a prendere forma… manca solo un pannello. Il ventinovesimo, proprio quello. Quello mai dipinto ad Assisi da Giotto nella vita di San Francesco: l’incontro con il lebbroso. Una scena troppo scomoda, troppo vera. Ma forse oggi più che mai necessaria.
Sì, forse è proprio questo che resterà: il desiderio di andare a cercare, nelle nostre vite, quel ventinovesimo pannello mancante. La scena invisibile ma decisiva. L’atto d’amore silenzioso, l’incontro con ciò che respingiamo, la parte che ancora manca nel nostro racconto. Perché anche la santità oggi – come ci ha ricordato Don Giuseppe – ha un volto che spesso non vogliamo vedere.
Le emozioni vanno attraversate, la presenza vera costa fatica. Eppure, lì, in quella fatica, c’è la vita. Nei libri portati da Don Giuseppe – Sentimenti maleducati e La fatica della presenza – c’è una bibliografia viva, incarnata. Così come viva è la domanda lanciata da Davide Gandini: cosa significa oggi parlare di progetti di vita? E chi di noi leggerà Fratellino, evocato da Don Giovanni? Sono domande che restano sospese perché, in fondo, il cammino vero comincia al ritorno. Quando si torna a casa, là dove si lavora, dove si ama. Alla casa di riposo di Pontecurone. Alla casa natale di Don Orione, che Claudia ci ha mostrato. Alla casa di Dio, nella Collegiata di Santa Maria Assunta, dove Don Orione fu battezzato e cresimato.
Nella messa celebrata lì, Don Carlo ci ha ricordato che l’amore ci fa guardare e non solo vedere. E che questo percorso serve proprio a questo: a imparare a guardare.
Non portiamo a casa risposte. Ma una domanda viva, una domanda che pulsa. E la voglia di continuare a camminare.
Scrivo spesso prima di addormentarmi. Ieri sera, tornato dal Temple Bar dove molti di noi ci siamo riuniti per il brindisi di rito con Don Giovanni, ho sentito l’urgenza di mettere giù queste parole. Ora sono in autobus, in viaggio verso Pescara. Il finestrino riflette un cielo uggioso, e penso ancora a quel bambino sul motorino che corre tra i campi sotto un cielo denso di azzurro, visto dal treno in Io speriamo che me la cavo.
Ce la caveremo tutti. Anche grazie alle parole dell’omelia di Don Carlo. Alla sua ultima riflessione: la carità come un bicchiere d’acqua donato, non solo come atto, ma come relazione. Tra chi dona e chi riceve. E spesso è chi dona che riceve.
E allora penso ai giardini che nessuno sa, di Renato Zero.
“Siamo noi gli inabili che pur avendo, a volte non diamo.
E poi… silenzi.
E poi… segui la stella.”