Roma – Ricordo di Don Giuseppe Sorani
Sono passati pochi giorni da quando Don Giuseppe Sorani è andato incontro al Dio che ha pregato per tutta la sua vita, prima chiamandolo Adonai e poi Gesù.
Sono due i ricordi che riportiamo, che testimoniano la grande eredità che don Sorani ha lasciato, un’eredità viva e attuale. La prima testimonianza è lo scritto letto durante le esequie da un rappresentante del Segretariato Attività Ecumeniche di Roma, di cui il sacerdote orionino è stato membro per molti anni. In poche righe delinea la spiritualità e la vita di questo nostro sacerdote. In allegato all’articolo si può leggere questo commovente saluto.
La seconda testimonianza ce la lascia lo stesso don Sorani, il quale, mentre con una profonda serenità si avvicinava all’incontro con Dio, lasciava le ultime indicazioni ai suoi confratelli: aveva chiesto che prima delle esequie fosse recitata la preghiera ebraica del KADDISH.
Il Kaddish, o Qaddish e Qadish (in aramaico קדיש, lett. Santificazione), è una delle più antiche preghiere ebraiche recitata soltanto alla presenza di un Minian composto da dieci maschi ebrei che abbiano compiuto la maggiore età religiosa dei 13 anni, età a partire dalla quale ogni ebreo ha il dovere di osservare i precetti della Torah. Il tema centrale del Kaddish è l’esaltazione, magnificazione e santificazione del nome di Dio.
Il termine “Kaddish” è spesso usato come riferimento al “Kaddish del lutto”, recitato come parte dei rituali funebri dell’ebraismo in tutti i servizi di preghiera, come anche ai funerali (all’infuori del cimitero – si veda più sotto: Kaddish ahar Hakk’vurah) e ai memoriali. Persone in lutto “dicono il Kaddish” per dimostrare che, nonostante la perdita, ancora lodano Dio e trovano in esso espressioni di consolazione.
Questo è il testo in lingua italiana:
“Sia magnificato e santificato il Suo grande nome,nel mondo che Egli ha creato conforme alla Sua volontà, venga il Suo Regno durante la vostra vita, la vostra esistenza e quella di tutto il popolo d’Israele, presto e nel più breve tempo.
Sia il Suo grande nome benedetto per tutta l’eternità. Sia lodato, glorificato, innalzato, elevato, magnificato, celebrato, encomiato, il nome del Santo Benedetto. Egli sia, al di sopra di ogni benedizione, canto, celebrazione, e consolazione che noi pronunciamo in questo mondo”.
L’Ebraismo crede all’esistenza di una vita nell’aldilà, l’Olam habah, “il mondo che viene”, e al giudizio, alla ricompensa nei cieli e alla punizione divina. Il termine Olam habah è anche usato nella tradizione ebraica per far riferimento ad un’era futura nella quale quanti si sono comportati in modo giusto saranno riportati in vita in un mondo perfetto.
Pur non soffermandosi sulla morte, la tradizione ebraica, una volta che essa sopraggiunge, sottolinea l’importanza di non negare la sua realtà. Chi è in lutto è invitato a spargere per primo la terra sopra la bara o sopra il corpo del defunto quando viene deposto nella tomba, quasi per rafforzare la consapevolezza della perdita.
Le tradizioni ebraiche per la sepoltura e per il lutto sono volte a spingere colui che vi è coinvolto a misurarsi, prima con la realtà della morte, e poi con la sua accettazione. Quando si viene a conoscenza della morte di un parente, i parenti stretti esprimono il proprio dolore facendo uno strappo sul vestito, Questa tradizione risale alla figura di Giacobbe che, nella narrazione biblica, si lacerò le vesti dopo essere venuto a conoscenza della morte del figlio Giuseppe (Genesi 37,34).
L’Ebraismo impone che la sepoltura avvenga nello stesso giorno della morte; può essere posticipata nel caso sia necessario del tempo per radunare i cari del defunto.
Il defunto viene avvolto in un semplice lenzuolo funebre a cui si aggiunge, per gli uomini, lo scialle della preghiera con le frange tagliate (Talled) in segno di lutto e di perdita: questo dà rilievo al fatto che tutti gli esseri umani sono uguali. La bara necessaria al trasporto del corpo è semplice e fatta di legno.
Al funerale è usanza comune che un rabbino o un parente stretto del defunto, pronunci un discorso funebre (Hesped), indicando i pregi del defunto. Secondo la tradizione, lo scopo è quello di far piangere i parenti del morto, aiutandoli a sfogare ed esprimere il loro dolore.
Dopo il funerale, gli Ebrei osservano una settimana di lutto (Shiva), il cui nome attinge al termine ebraico che indica il numero “sette”. Durante questa settimana, i parenti del defunto rimangono in casa, seduti su bassi sgabelli. I “sette giorni” sono osservati dai genitori, dai figli, dai coniugi e dai fratelli del deceduto, preferibilmente insieme nella casa del defunto. I membri della comunità li raggiungono per celebrare alcuni riti di preghiera, per portar loro del cibo e far loro visite di solidarietà.
Chi è in lutto non può radersi, lavarsi e indossare scarpe di pelle. In casa, tutti gli specchi devono essere coperti. La settimana di Shiva è parte del mese di lutto (sheloshim, dal numero “trenta”, che fa riferimento ai giorni del mese) che, dopo i primi sette giorni, segue con un’attitudine meno intensa; in questo mese i parenti del defunto non partecipano a celebrazioni, non si radono, non si tagliano i capelli e non ascoltano musica. Anche nei dodici mesi successivi alla morte della persona cara, si evita di partecipare a feste o concerti. Durante questo periodo, viene recitato ilKaddish, una preghiera in onore del morto, in ogni momento principale di preghiera.
Al termine di un anno le tradizioni relative al lutto terminano. Il defunto verrà ricordato nel giorno dell’anniversario di morte (Yahrzeit): in questa occasione i familiari recitano il Kaddish nella sinagoga e accendono una candela in sua memoria. Anche nel corso di alcune feste, viene recitata una preghiera speciale per i morti, nota come Yizkor.