Don Orione e la carità nell’educazione
Intervento del Card. Tarcisio Bertone in occasione del centenario della Piccola Opera della Divina Provvidenza, Novi Ligure 20/03/2003.
Sono lieto di offrire il mio contributo alle celebrazioni per il Centenario di approvazione canonica della Piccola Opera della Divina Provvidenza (21 marzo 1903 – 2003). Il nome di don Luigi Orione, sempre chino sulle necessità del prossimo, nella sua straripante carità sacerdotale, ha travalicato il territorio della sua Tortona e vorrei dire anche della sua Genova, e ha raggiunto il mondo, in un crescendo di iniziative e di opere sociali. Fondò scuole, chiese e case per i poveri e i bisognosi, convinto che “solo la carità salverà il mondo”.
Don Bosco e don Orione di fronte ai problemi della scuola e dei giovani
Uno dei cofondatori del P.C.I. scriveva nel 1920: “Don Bosco! Era un grande, che dovreste cercare di conoscere. Nell’ambito della Chiesa… seppe creare un imponente movimento di educazione, ridando alla Chiesa il contatto con le masse, che essa era venuta perdendo. Per noi che siamo fuori della Chiesa e di ogni chiesa, egli è un eroe, l’eroe dell’educazione preventiva e della scuola-famiglia. I suoi prosecutori possono esserne orgogliosi!” [1].
Anche Gaetano Salvemini classificò don Bosco tra i profeti apolitici d’Italia, assimilandolo a Francesco d’Assisi. Così U. Eco che ha scritto: “Questo geniale riformatore intravede che la società industriale richiede nuovi modi di aggregazione ed allora inventa una macchina perfetta… la genialità dell’Oratorio gestito su basi minime; prescrive al suoi frequentatori un codice morale e religioso, ma poi accoglie anche chi non lo segue. In tal senso il progetto di Don Bosco investe tutta la società dell’era industriale, alla quale è mancato il suo “progetto Don Bosco” con la stessa immaginazione, la stessa inventiva organizzativa, sociologica, lo stesso senso dei tempi” [2].
Questi autori-scrittori hanno colto il cuore dell’opera di Don Bosco, il suo senso vero: un grande amore ai giovani, tradotto in un servizio alla loro formazione umana e professionale. Credo che le medesime parole possano essere applicate al genio di don Orione, nel suo lavoro tra i giovani, alla cui formazione dedicò i suoi primi sforzi apostolici.
Le prime attività nella Torino preindustriale
Don Bosco fonda il primo Oratorio a Torino nel 1841. Ogni giorno, ogni mese bussa alla porta di don Bosco un gruppo sempre più numeroso di piccoli lavoratori, per lo più soli e indifesi: a otto – nove anni vengono gettati in un lavoro estenuante di 12 -15 ore al giorno, in mezzo ad abusi, scandali, sfruttamenti, negli ambienti malsani delle fabbriche e delle officine.
Don Bosco difende fino al limite del possibile i ragazzi lavoratori. Esige dai padroni regolari contratti di lavoro su carta bollata (fin dal 1847). Possediamo un contratto firmato da don Bosco con il vetraio Carlo Aimino, a favore del giovane Giuseppe Bordone, del novembre 1851, nell’Archivio centrale Salesiano. Ma don Bosco non è ancora soddisfatto. Nelle officine e nelle botteghe i piccoli lavoratori sono fianco a fianco con adulti a volte disonesti, che parlano e agiscono male, che li invitano a bere “per tirarsi su e stare allegri”. Finiscono così per rovinarsi nel corpo e nell’anima. Un ragazzo che a quel tempo ha 14 anni, Pietro Enria, accolto da don Bosco con i suoi quattro fratellini durante il colera del 1854, ricorderà quella situazione con una prosa candida e sgrammaticata: “Alla sera don Bosco ci tratteneva sempre qualche minuto prima di andare a letto, ci raccomandava di stare in guardia dai cattivi compagni e dai perversi discorsi… a noi artigiani che eravamo più in pericolo ci diceva: non ascoltate mai quelli che fanno cattivi discorsi quando siete nella bottega, che parlano male; … Mi ricordo io stesso quante volte ho dovuto fuggire dal laboratorio per non sentire dei discorsi osceni; io aveva solo 14 anni e i garzoni erano già uomini fatti; due poi erano veramente perfidi, non avevano nessun pudore nel parlar male della religione e costumi, erano poi due bestie» [3].
Nell’autunno del 1853 don Bosco (che ha le tasche vuote come sempre) compie un atto di audacia: fa costruire un nuovo edificio accanto alla casa Pinardi e dà inizio ai laboratori interni. Comincia con i calzolai e i sarti, perché quei mestieri sa insegnarli lui, senza bisogno di pagare istruttori esterni. Ma è deciso a non fermarsi lì. Il laboratorio dei calzolai lo colloca in un locale stretto, vicino alla chiesa di S. Francesco di Sales. Si siede davanti al deschetto, e sotto gli occhi di quattro stupiti ragazzini batte una suola a regola d’arte, maneggia la lesina attorno a una tomaia. Poi domanda se hanno capito come si fa. Al sì incerto dei ragazzini, capisce che hanno capito poco, e ricomincia da capo, con pazienza. I sarti sono collocati nella stanza della cucina, mentre pentole e fornelli sono trasferiti nell’edificio nuovo. Il maestro è ancora lui, don Bosco, che Giovanni Roberto a Castelnuovo aveva invitato a “piantarla con i libri”, visto che il sarto lo sapeva fare sul serio.
Dalla parte dei più poveri
Nel 1854 apre il terzo laboratorio, la legatoria dei libri. Nel 1856 il quarto, la falegnameria. Il quinto è il più desiderato, la tipografia. A quei tempi ci vogliono chili di documenti e sfilze di garanzie per ottenerlo. La licenza arriva firmata dal prefetto Pasolini il 31 dicembre 1862. Il laboratorio comincia a funzionare con due macchine a ruota e un torchio azionato a mano. Il sesto inizia l’anno dopo: è l’officina dei fabbri ferrai, antenata dei laboratori di meccanica. I ragazzi, ora, non escono più a lavorare in città. Lavorano in casa, sotto la guida amorevole di don Bosco e dei suoi aiutanti. L’Oratorio comincia a straripare di ragazzi che giungono da ogni parte: vogliono imparare un mestiere sotto la guida di don Bosco, non più andarsi a seppellire nelle officine della città. Arriveranno al numero di 300. Ma don Bosco seleziona i ragazzi: sceglie i più poveri, i più miseri. quelli che hanno assoluto bisogno di una mano per non fare naufragio nella vita. Nel regolamento di accettazione scrive: «Il giovane artigiano che viene accettato deve essere orfano di padre e di madre e totalmente povero e abbandonato. Se ha fratelli e zii che possono assumerne l’educazione, è fuori dello scopo di questa casa» [4].
Il ragazzo Luigi Orione a Valdocco
Luigi Orione conosce e scopre don Bosco a 14 anni: esattamente il 4 ottobre 1886 entra nell’Oratorio Salesiano di Valdocco, vivente ancora don Bosco. «Quanto benedico Iddio – dirà più tardi – di aver conosciuto don Bosco. È stata tanta la luce di Dio che ha penetrato la mia vita da don Bosco (…) che in me ogni altra impressione è superata, come la luce delle stelle è superata da quella del sole. Quando mi trovai a Torino, mi si aprirono gli occhi e il cervello; capii la grazia grande che avevo ricevuto nell’essere stato malato, dopo cinque mesi, a Voghera, perché quella malattia mi aveva condotto da don Bosco.
Se non ci fosse stato per me don Bosco – ripeterà spesso – né io sarei quel che sono, né voi, miei figli, sareste qui. Tutto dobbiamo a don Bosco…» [5]. Luigi Orione, con quella apertura, avida di orizzonti sconfinati, di ideali grandi e santi, respirò a pieni polmoni l’aura salesiana di Valdocco, se ne impregnò in maniera tale da rimanerne segnato per sempre. Qui, infatti, ha origine quello sconfinato amore per i giovani, quel prodigarsi per loro che costituirà tanta parte dell’azione di lui fondatore. Conobbe dunque don Bosco, vivendo sotto lo stesso tetto. Ne ascoltò la parola suadente. Ne bevve lo spirito. Ne studiò ed apprese i metodi. Ne ammirò i risultati pedagogici e apostolici. Ebbe il privilegio, a quel tempo concesso a pochi data la malferma salute del Santo, di confessarsi da lui. Al termine di una di queste confessioni si sentì dire, più che con la parola col penetrante sorriso celestiale: «Noi saremo sempre amici!».
“L’educazione è cosa del cuore”
Diventato don Orione, comprese perfettamente, come diceva don Bosco, che l’educazione è cosa del cuore ed è necessario che tutti i protagonisti dell’educazione, prima di tutto i giovani, convergano in una comunione di interessi e di obiettivi, per la maturazione di una autentica personalità, umana e cristiana. La sua meta, il suo obiettivo finale è di formare “buoni cristiani e onesti cittadini”: studio, lavoro, regolata libertà, gioia, civiltà in una tendenziale sintesi di ragione e religione. Ma don Bosco non si ferma a contemplare il “cielo” dei suoi ragazzi. Egli vive in mezzo a loro e sa, o “sente”, che essi non sopportano solo pensieri seri; inoltre, ha modo di sperimentare quanto soffrano la “povertà” e “l’abbandono” e quali siano le loro richieste, più o meno espresse. La sua pedagogia, perciò, non può non assumere il “volto” dei ragazzi di cui si occupa. Necessariamente, dunque, si “umanizza” nei contenuti e nei metodi. La “salvezza eterna” è così ricercata passando attraverso le indispensabili forme della salvezza terrena (vitto, vestito, alloggio, lavoro, professione, socializzazione) e di uno stile su misura della sensibilità giovanile (sicurezza affettiva, serenità, convivenza familiare, gioia). Avanzando poi verso l’ultimo quarto di secolo, con lo sviluppo delle varie opere, don Bosco carica di significati sempre più vasti i termini “poveri”, “abbandonati”, pur rimanendo fedele fino agli ultimi giorni all’originaria scelta preferenziale per la povertà economica, sociale, religiosa. Le sue sollecitudini si estendono idealmente a tutti i giovani colpiti da una qualche “precarietà”, anche morale, professionale, culturale, per i quali si rivelano necessarie misure diversificate di accoglienza, assistenza, sostegno, promozione. Coerentemente, istituzioni e metodi si aprono a una più vasta “disponibilità”. E le parole del “padre e maestro dei giovani” vengono ascoltate con crescenti simpatie e consensi dalle categorie più svariate di persone, sensibili al problema dell’educazione della gioventù in un mondo nuovo. Questa simpatia suscitata ovunque da don Bosco nasce certamente dall’assunzione di criteri di azione educativa largamente condivisi: le tappe della crescita dei giovani non sono un evento transitorio, ma un’esperienza di vita valida in sé e che incide nel futuro; i ragazzi sono e devono essere non solo dei collaboratori attivi della loro educazione, ma degli autentici protagonisti; la gioia e la fatica di dire e di progettare non è un semplice compito o un dovere, ma è soprattutto slancio, inventiva, passione per la vita e per il senso della vita; il rapporto educativo dice coinvolgimento di amicizia, costruzione di comunità, presenza propositiva di valori e di ideali… Ma alla radice di queste esperienze educative sta un denominatore comune: la peculiare esperienza spirituale ed educativa di don Bosco, da cui è scaturito un sistema originale di educazione. Il sistema preventivo infatti ci riporta direttamente “al cuore di don Bosco, alla sua maniera tipica di concepire l’evangelizzazione come salvezza totale… Troviamo in esso il contributo originale di sapienza, apportato da don Bosco alla Chiesa e al mondo, il suo ripensamento del Vangelo in chiave di carità educativa, la sintesi che traduce la sua esperienza di educatore e la sua spiritualità” (Don E. Viganò).
La paternità di don Bosco e di don Orione
Mi sembra che il tratto sacerdotale più caratteristico dei nostri Santi sia la paternità. Proprio don Orione, in diverse lettere, scrive: “Con grande amore in Gesù Cristo, come Padre, benedico tutti e ciascuno in particolare”. Se il significato della paternità (maternità) è quello di dare la vita, essa si identifica per il sacerdote nella carità pastorale, come «virtù con la quale noi imitiamo Cristo nella sua donazione di sé e nel suo servizio. Non è soltanto quello che facciamo, ma il dono di noi stessi, che mostra l’amore di Cristo per il suo gregge» [6] (Pastores dabo vobis, 23). La paternità del sacerdote è legata alla paternità che Gesù stesso ha rivelato come manifestazione del Padre («Chi ha visto me ha visto il Padre» Gv 14,9). Dunque, la sequenza sacerdote-Gesù-Padre è obbligatoria perché, secondo le parole di Gesù, «nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6).
L’accesso al Padre attraverso il Figlio si può ancor più specificare se si segue il consiglio di S.Teresa d’Avila. Nella sua autobiografia questo dottore della Chiesa dà un’indicazione di valore assoluto quando mette in guardia contro il pericolo di una relazione con Dio troppo staccata dall’Incarnazione e propone la sua esperienza in questi termini: «io vedo chiaramente […] che per essere graditi a Dio e per ottenere che ci doni speciali grazie, egli vuole che si passi attraverso questa sacratissima umanità di Cristo, in cui Sua Maestà disse di compiacersi. Ne ho fatto esperienza moltissime volte, me lo ha detto il Signore; ho visto chiaramente che dobbiamo entrare da questa porta, se vogliamo che la divina maestà ci riveli i suoi grandi segreti» [7].
Da Dio Padre viene ogni paternità e Gesù ne ha rivelato la realizzazione attraverso la sua umanità. Certo in Cristo tale realizzazione era perfetta, mentre noi possiamo solo tentarne l’imitazione per grazia di partecipazione. Modelli più vicini a noi, ma anche più vicini a Cristo sono i santi. Quanto a don Bosco il suo secondo biografo, Don Eugenio Ceria, ha scritto: «Non comprenderà mai Don Bosco chi non riesce a figurarselo come Padre».
Don Bosco è definito dai Papi e dalla liturgia “Padre e Maestro dei giovani”. La sua paternità è stata riconosciuta da migliaia di giovani e rimane un modello per tutta la Chiesa e per l’intera umanità. Ecco che cosa raccomandava a don Michele Rua che doveva prenderne l’eredità, e che sarebbe stato poi la guida spirituale di don Orione Fondatore: «Ti parlo con la voce di un tenero padre che apre il cuore a uno dei più cari suoi figliuoli. Con te stesso:- Niente ti turbi. -Evita le mortificazioni nel cibo. Ogni notte non fare meno di sei ore di riposo. – Celebra la santa Messa e recita il breviario con pietà, devozione e attenzione. – Ogni mattina un poco di meditazione, lungo il giorno una visita al Santissimo. – Studia di farti amare prima di farti temere; nel comandare e correggere fa sempre conoscere che desideri il bene e non mai il tuo capriccio. Tollera ogni cosa quando si tratta di impedire il peccato. – Pensaci alquanto prima di deliberare in cose d’importanza. – Quando ti è fatto rapporto intorno a qualcuno, procura di rischiarare bene il fatto prima di giudicare». Don Bosco si è sentito padre dei suoi giovani. I modelli a cui si è ispirato furono: Dio Padre e Cristo Buon Pastore, il Figlio che col Padre collabora nella salvezza fino a dare la vita. La sua paternità è dono carismatico: «Lo Spirito formò in lui un cuore di padre capace di donazione totale».
I gesti e le espressioni tipiche si plasmano nell’incontro con i giovani in un contesto educativo. E’ una paternità fatta di affetto intenso e di responsabilità verso la vita, capace dunque di accogliere e proteggere teneramente, ma allo stesso tempo di lanciare verso la crescita, di insegnare ad affrontare la vita, di comunicare saggezza pratica. Insomma fortemente propositiva e persino esigente. Non si può centrare la paternità che don Bosco visse e propone a noi, come sacerdoti ed educatori, se non si prendono in considerazione questi due aspetti: affetto e responsabilità.
Paternità educativa
Noi ci fermiamo sovente sui suoi gesti di bontà rassicurante ed incoraggiante, che faceva fiorire nei ragazzi una spontanea confidenza in lui. E’ un aspetto che certamente lo caratterizza molto presente nella nostra memoria e nella nostra dottrina spirituale. Giovanni Paolo II ha voluto quasi scolpirlo, nella lettera che ha inviato in occasione del centenario: “Padre e Maestro dei giovani”. Una raccolta di aneddoti lo ricamano con ricordi di ex allievi, nei quali l’immagine paterna di don Bosco era rimasta indelebile e viva. Egli aveva riempito senza svantaggi il posto dei loro genitori assenti o impreparati. C’è poi l’antologia di racconti di salesiani in difficoltà, provati o inesperti, e di altri vivaci e geniali, che hanno tramandato la sua figura di responsabile di una famiglia, capace di dare pace e felicità all’insieme, valorizzando ciascuno dei suoi componenti, aprendo ampi spazi alla spontaneità, suscitando attese, ispirando ideali, lanciando progetti audaci, chiudendo un occhio, dimenticando sgarbi, stimolando sempre, con il sorriso, la parola ed il gesto. C’è anche un florilegio di testi in cui don Bosco esprime i suoi sentimenti paterni, di commozione e tenerezza di fronte ai ragazzi bisognosi. Pensate a quelle parole a commento delle sue visite alle carceri: «Io mi sentivo profondamente commosso vedendo quei giovani, oziosi, rosicchiati dagli insetti». Un uomo che non riesce a passare indifferente di fronte ad una situazione di infelicità. Lo stesso sentimento egli esprime riguardo ai giovani dell’oratorio, che sono in una situazione più favorevole, quando è lontano da loro. Abbiamo letto e riletto la lettera del 1884: «Sento, miei cari, il peso della mia lontananza da voi… e il non vedervi e non sentirvi mi cagiona pena quale voi non potete immaginare». Le espressioni si ripetono riguardo ai salesiani adulti, impegnati in ruoli importanti ed in terre lontane: «Chiamatemi e consideratemi padre e sarò felice!». Il tratto della bontà, della tenerezza, dell’accoglienza, da solo però non esplicita sufficientemente la paternità educativa e spirituale di Don Bosco. Come ogni altra, essa è una combinazione felice di affetto e responsabilità per la vita dei figli: è infatti comprensiva, ma allo stesso tempo capace di chiarire, proporre ed esigere quello che reggerà a lungo termine. Non è dunque solo olio che lenisce momentaneamente, ma energia che orienta verso gli aspetti ardui dell’esistenza; dolce e autorevole insieme, non soltanto perdona, ma guida allo sforzo. Basta pensare a tutto il tema del lavoro, dello studio e del dovere. Questa responsabilità si prende cura di tutta la vita: vestito, alloggio, lavoro, studio, gioia, compagnia, casa. Raggiunge in forma sensibile i giovani fino a provocare in loro un desiderio e un entusiasmo di crescita, una nascita al senso del proprio valore, una nuova capacità di capire la vita che essi devono ancora imparare ad interpretare.
Paternità spirituale
Si rivolge però in primo luogo alla dimensione spirituale o di salvezza. Quella di don Bosco è una paternità “spirituale” che genera alla conoscenza di Dio attraverso la parola ed il gesto, e alla grazia attraverso la proposta di conversione, il perdono, la ricostruzione della vita. E’ quella paternità di cui parlava san Paolo ai Corinzi quando diceva loro: «Potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generati in Cristo Gesù, mediante il Vangelo» (1 Cor 4,15). Egli vuole aprire i giovani al mistero di Dio; metterli a contatto con lui; rivelare loro il piano meraviglioso di salvezza che Dio aveva per loro e aiutarli così ad essere felici in questo mondo e nell’eternità. Questo modo di concepire e cercare la felicità del ragazzo è l’espressione della spiritualità pastorale di don Bosco. Se egli fosse stato molto amico dei giovani, ma preoccupato solo di comunicare loro i valori temporali anche nobili, non sarebbe andato oltre al livello di un buon pedagogo. La sua amorevolezza “pedagogica”, il suo stile di bontà erano invece collegati alla “voglia”, alla “brama” direbbe San Paolo – di generare i giovani alla vita di grazia, che proviene dal sacerdozio di Cristo, la cui funzione è la rivelazione del Padre. Don Bosco bada all’anima, alla grazia, alla vita in Dio dei giovani e dei confratelli. L’impostazione di tutta l’organizzazione educativa e di ciascuno dei suoi momenti è salvifica. La finalità di tutto – rapporti, attività, ambiente – tende a suscitare e a coltivare la fede, ad “evangelizzare”, diremmo oggi.
Sottolinea don Pietro Braido: «Non ci meravigliamo allora se il suo sistema educativo, per quanto permeato di gioia, di allegria, di umanità, sia nel suo centro e nell’ispirazione fondamentale “devoto” – Qualcuno rimarrà forse deluso, perché la sua ammirazione per don Bosco è legata ad una prospettiva diversa. Pensa a Lui come al sacerdote santo, si, ma di una santità nuova, umana, “moderna”, mentre tutto in lui è fortemente radicato nel religioso, nella fede». I due aspetti educativo e spirituale sono fondamentali: se mancasse o diminuisse il primo, cioè l’affetto e l’amicizia, verrebbe meno la pratica del Sistema preventivo; se mancasse il secondo, cioè la responsabilità per la salvezza, cadrebbe il da mihi animas. La paternità è una richiesta ricorrente oggi. I giovani forse non la chiedono, ma ne hanno bisogno. Sembra uno degli aspetti carismatici maggiormente messi a rischio dalla molteplicità delle occupazioni e dal nuovo rapporto che intercorre tra comunità, singoli confratelli e superiori, tra genitori e figli, tra educatori e giovani. Può essere messa a rischio anche dalla “mentalità manageriale”. Le sue manifestazioni vanno riconsiderate nel nuovo contesto della famiglia cellulare e del clima educativo che privilegia la partecipazione e il dialogo.
Due citazioni.
Anzitutto è commovente e paradigmatica la testimonianza di Ignazio Silone sul suo incontro con don Orione, dopo la fuga dal famoso collegio siciliano e il lungo viaggio in treno fino a Sanremo[8]. Ispirandosi all’esempio di don Bosco e alle linee maestre della pedagogia cattolica, applicò con sfumature e accentuazioni proprie il metodo preventivo che aveva appreso a Valdocco, e lo chiamò «sistema cristiano-paterno»[9]. Si tratta anche in questo campo, come ha detto Giovanni Paolo II, di una meravigliosa e geniale espressione della carità cristiana”.
«Fondamento del sistema -scrive don Orione -non solo deve essere la ragione e l’amorevolezza, ma la fede e la religione cattolica -praticata- e il soffio di un’anima e di un cuore di educatore che ami veramente Dio e lo faccia amare, dolcemente, insegnando ai giovani le vie del Signore. L’educatore deve sempre parlare il linguaggio della verità con la ragione, col cuore, con la fede». [10]. Don Orione si rifà essenzialmente al metodo dell’amore, comune a tutta la pedagogia cristiana; pone l’accento non solo sui principi della pedagogia e della psicologia, ma anche su quelli della paternità e dello spirito di famiglia: «sistema cristiano-paterno», appunto. I termini «paterno» e «cristiano», intimamente connessi tra di loro, vengono illustrati e commentati nel citato “Progetto” ai nn. 85-91)
Metodo “paterno”
«Qualificando come paterno il suo sistema, don Orione, anzitutto, vuole indicare che i due protagonisti dell’educazione vanno considerati padre e figlio. L’educatore, in certo modo, incarna da un lato la paternità di Dio e, dall’altro, la funzione del padre di famiglia; quindi l’ideale di educazione si potrà perseguire nella misura in cui si assume un atteggiamento paterno nei confronti dell’allievo» [11].
Senza paternità non si può avere alcun tipo di crescita, perché mancherebbe all’educatore la capacità di accettare l’alunno così come è, e di conseguenza, la generosità per impegnarsi a fondo nello sviluppare, per quanto possibile, tutte le sue potenzialità. Del resto l’alunno che non si sentisse amato, difficilmente si verrebbe a trovare nelle disposizioni psicologiche atte a favorirne la partecipazione a quanto gli viene proposto [12]. «Paternità vuol dire dedizione assoluta. Ma la paternità nell’ambito educativo non può essere disgiunta dall’autorità» [13]. «La perfezione del governare – segnala don Orione – è compresa in queste cinque parole: Vegliare, amare in Domino, sopportare, perdonare e pascere in Domino» [14]. Un educatore, secondo don Orione, deve coltivare le seguenti attitudini:«Essere nemico dei vizi e medico dei viziosi: deve vigilare sopra di essi, e cercare tutti i mezzi di ridonare all’anima loro una sanità morale e religiosa vigorosa. Non essere corrivo a credere troppo agevolmente (…) a chi viene a riferire su questo o quell’altro» [15]. «Correggi, sovra tutto, con la forza del tuo esempio, e con la dolcezza dei tuoi avvertimenti. E quand’anche fossi costretto a punire, non punire mai mai mai con acerba severità»[16]. «Odia con tutto l’animo i vizi, ma ama con la più tenera carità quelli che hanno mancato, poiché con la tua amorevolezza giungerai a correggerli e, correggendo, a convertirli» [17]. «Non dobbiamo mai lasciarci uscire di bocca un ordine – non dirò neanche la parola: un comando -, quando la passione è in sul caldo» [18]. «Quando siamo costretti a negare ciò che vien chiesto – come talora conviene o è dovere di fare -, si faccia in modo che il suddito vegga la pena che noi proviamo di non poter concedere, e si conosca da lui che la pura forza della regola e del dovere, e non altro, ci costringe al rifiuto» [19]. «Prendere in mano, con grande riverenza, l’anima dei giovanetti a noi affidati, come farebbe un buon fratello maggiore con i fratelli più piccoli. (…) Avviciniamo i giovani come piccoli fratelli nostri, unendo al dolce, alla mitezza e bontà anche quel contegno dignitoso – ma non abitualmente severo – che valga a conciliarci la loro benevolenza» [20]. «In tutto facciamo loro comprendere che vogliamo il loro verace bene. (…) II giovane ha bisogno di persuadersi (…) che viviamo non per noi, ma per lui; (…) che il suo bene è il nostro bene; che le sue gioie sono le nostre gioie, e le sue pene, i suoi dolori sono pene nostre e nostri sono i suoi dolori. Egli deve anche sentire che siamo pronti a fare per lui dei sacrifici, e a veramente sacrificarci per la sua felicità e per la sua salvezza. (…) Egli deve leggere nel cuore! Deve aver fiducia di noi, deve sentirci. Egli sentirà Dio, sentirà la Chiesa, la Patria attraverso noi» [21].
Metodo “cristiano”
«Nella scuola è necessario che sia tutto verità ciò che si insegna; quella verità che nutre, che non inaridisce il cuore perché non è mai disgiunta dalla virtù e dalla carità. Ogni vostro insegnamento, dunque, elevi le menti dei vostri alunni a Dio»[22].
«Non infatuate i giovani per la scienza, ma portateli attraverso lo studio e la scienza a dar lode al Signore dal quale vengono tutti i doni e tutti i lumi»[23].
«Vi dirò di guardarvi dal far prediche tutti i giorni, né si dovrà trasformare la scuola in una chiesa, né la cattedra in un pulpito, no! Ma tutto deve essere alto e santo nella scuola, come nella chiesa; però, mai prediche nelle scuole; ma tutto in voi dovrà predicare Dio, e di tutto servirvi per infondere e diffondere la fede e l’amore di Dio benedetto: sarà oggi una parola a metà spiegazione, sarà domani un riflesso, sarà bollare d’infamia una mala azione di un personaggio storico. Oh!, quando si ama Dio, tutto vibra di Dio! E si ha sempre un gesto, una parola che fa di più che una predica intera!».[24]
Per don Orione ciò che conta nella formazione religiosa è che l’educatore sia lui, prima di tutto, un convinto credente [25]. Per questo afferma con forza: «Esempio! Esempio! Esempio! I giovani non ragionano tanto: seguono e fanno ciò che vedono fare» [26].
La coerenza e l’autenticità sono, per don Orione, gli obiettivi fondamentali dell’azione educativa e del suo sistema pedagogico in particolare. Scrive: «Noi dobbiamo avere e formarci un sistema tutto nostro di educare (… ), un sistema che reagisca contro l’educazione cristiana data all’acqua di rose, di apparenza più che di sostanza, di formule più che di vita. Noi vogliamo e dobbiamo educare profondamente l’animo e cattolicamente la vita, senza equivoci: educare ad una vita cattolica non in superficie, cioè di nome e non di fatto, ma a una vita cattolica pratica, che abbia base nei sacramenti, vita di unione con Dio, di preghiera e di pietà vera, vissuta e insignita di virtù»[27].
Noi nel quotidiano
Se volessimo portare a livello di esperienza feriale l’esempio dei nostri due santi, si potrebbero individuare alcune piste che sono destinate a toccare, in vario modo, la fisionomia del lavoro pastorale quotidiano. Le desumiamo dal Vangelo di Giovanni 10, 1-16 sul Buon Pastore.
Conoscere le persone che si è chiamati a guidare («Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me»). San Gregorio Magno, parlando della conoscenza del Signore, raccomanda anche la conoscenza del cuore, l’amore: «Domandatevi, fratelli carissimi, se siete pecore del Signore, se lo conoscete, se conoscete la luce della verità. Parlo non solo della conoscenza della fede, ma anche di quella dell’amore; non del solo credere, ma anche dell’operare».
Vivere insieme con le persone che si è chiamati a guidare o animare («Egli chiama per nome le proprie pecore e le conduce fuori»). Il distacco, o peggio, il “sentirsi superiori” non favorisce l’autorevolezza.
Saper condividere i problemi e le debolezze («Il mercenario quando vede venire il lupo abbandona le pecore… io offro la mia vita per le pecore»). L’autorità non ha e non può avere tutte le risposte. Le dovrà cercare insieme con tutti. Questo dà autorevolezza.
Guidare verso il futuro («Cammina avanti ad esse»): la fede è camminare sempre verso un’altra “terra”. Quando un’autorità difende solo il passato e mostra paura del futuro perde di autorevolezza perché i credenti desiderano un’autorità che, come Abramo, come Mosé, come Gesù continui a spingere la storia verso la pienezza perché si è convinti che il Regno di Dio appartiene più al futuro che al passato.
Conclusione
Dal cuore di Cristo pastore sgorga la carità pastorale. Per carità pastorale non si intende una virtù che opera in senso moralistico, ma in senso teologico: un modo di realizzare l’evento salvifico dell’Amore di Cristo.
Essa di esprime nelle due dimensioni essenziali: amore per il Padre e amore per i fratelli.
Essa dà alla persona unità di mente e di cuore caratterizzandosi per un ardore, un fuoco, una generosità, un equilibrio, che rendono colui che la possiede generoso, buono, gioioso.
Questa carità pastorale proviene dal Cuore di Cristo buon Pastore ed è manifestazione concreta del suo Mistero, della sua Comunione, della sua Missione. Essa è stata trasfusa nei Santi, Vescovi, Sacerdoti, Suore o laici che siano.
Anche per noi la vocazione cristiana si identifica in fondo con la vocazione all’amore con cui Cristo ci ha amati. Dobbiamo dire, come ci invita il Cardinale Joseph Ratzinger: «Si all’amore, perché esso soltanto, proprio con il suo rischio della sofferenza e della perdita di sé, porta l’uomo a se stesso e lo rende ciò che egli deve essere. Penso che questo sia il vero dramma della storia, cioè che essa nella molteplicità dei fronti, gli uni contrapposti agli altri, alla fine è riconducibile alla formula: si o no all’amore.
E Dio cosa vuole veramente da noi?
Che diventiamo persone che amano, e cioè che realizziamo la nostra somiglianza con Lui. Poiché come dice San Giovanni, Egli è l’amore e desidera che ci siano creature a Lui simili, che scegliendo liberamente di amare diventino come Lui, Gli appartengano e diffondano così il Suo splendore» [28].
[1] (G. LOMBARDO RADICE, Clericali e massoni di fronte al problema della scuola, Roma, La Voce 1920, p.62-64, Iª appendice).
[2] (L’Espresso, 15 nov. 1981)
[3] (ST 3,503s)
[4] Memorie biografiche di don Bosco, vol. IV, p. 736.
[5] D.O. I, 235 ss.
[6] Giovanni Paolo II, Es. ap. Pastores dabo vobis, 23.
[7] Libro della mia vita, cap. XXII
[8] Cfr “Uscita di sicurezza”, Firenze 1965, pp.25 – 42.
[9] Cfr Progetto educativo orinino, cap. V, Lo stile pedagogico di don Orione, Roma 1994.
[10] Lett. I, 360.
[11] L. PANGRAZI, Il metodo educativo di don Orione, Mestre, 1989, manoscritto p 56.
[12] Don Orione, a un alunno che gli chiede di essere riammesso in collegio, scrive: “Desidero che tu sappia che non tutto è morto intorno a te, che non tutti ti hanno dimenticato, ma che c’è chi è capace di riempire il tuo cuore di santi affetti come se fosse tuo padre o tua madre” Don Orione, n 60, p 20. Cfr anche Lett. I, 360: “L’educatore cerchi di farsi altamente e santamente amare più che temere, e si faccia stimare a amare nel Signore, se vuole farsi temere”.
[13] L. PANGRAZI, o.c., p 59.
[14] Lett. II, 64
[15] Lett. II, 64
[16] Lett. II, 65
[17] Lett. II, 65.
[18] Lett. II, 66.
[19] Lett. II, 66.
[20] Lett. I, 240-241.
[21] Lett. I, 241-243.
[22] Lettera di don Orione (Tortona, 18.10.1939); “Messaggio di don Orione”, Quaderno n. 64, p.7.
[23] ib., p 7.
[24] Lett. I, 363-364.
[25] Cfr Lett. I, 360-61.
[26] Lett. I, 362
[27] Lett. I, 358-359.
[28] da J. Ratzinger, Il sale della terra, 1997, p. 320.